FACCIATA

 

Pur nella differenziazione degli stili e dei gusti delle epoche diverse e degli artisti che han lavorato sulla facciata di Santa Croce, è possibile intravedere una struttura abbastanza omogenea, nata da due fattori predominanti: innanzitutto le direttive del Concilio di Trento, che hanno sostanzialmente modellato l’intero impianto artistico di tipo religioso; a ciò si aggiunge la spiritualità tipica dell’Ordine di riferimento (in questo caso i benedettini celestini), che diviene anch’essa vincolante per gli artisti. Così come riportato da cartiglio sul portale centrale, la chiesa eretta nel portaggio di San Martino viene dedicata al Vessillo della Croce, riprendendo la dedicazione della chiesa fatta abbattere da Carlo V .

Già il titolo così posto, richiama quello dell’inno della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, ricorrente, fino alla riforma liturgica, in due date: 3 Maggio e 14 Settembre, in ricordo del rinvenimento della reliquia della Croce da parte di Elena (14 Settembre) e riconquista della stessa reliquia da parte di Eraclio (3 Maggio). Il “Vexilla Regis” è, ovviamente, anche l’inno proprio dei Vespri della Settimana Santa. In antico, veniva cantato anche nella processione del Venerdì Santo che ricollocava il SS. Sacramento dal Repositorio al Tabernacolo L’inno, redatto da Venanzio Fortunato nel 568, fu commissionato per l’arrivo a Poitier, nell’abbazia della Santa Croce, di un pezzo del Vero Legno donato alla regina Radegonda dall’imperatore Giustino II. Fu proprio la regina, moglie di Cloratio I, e poi divenuta santa, ad erigere la suddetta abbazia ponendola sotto la regola di San Cesario di Arles, regola ripresa poi da Benedetto da Norcia per il suo Ordine. Sia la dedicazione stessa della chiesa leccese, sia l’oggetto per cui la fabbrica viene innalzata – la reliquia del Vero Legno -, sia l’Ordine committente non possono, quindi, non richiamare tale inno, riprodotto, tra l’altro, nelle citazioni recate dai successivi puttini della balaustra centrale. La facciata di Santa Croce si può, orientativamente, dividere in tre sezioni: un ordine inferiore, legato alla maestria di Gabriele Riccardi, un ordine superiore ad opera di Cesare Penna, il fastigio a firma di Giuseppe Zimbalo.

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Ogni sezione è divisa dall’altra da una cornice a fregio. La parte inferiore della Basilica appare calma e sostanzialmente priva di decoro, ad eccezione dei portali – aggiunti successivamente da Francesco Antonio Zimbalo – che donano un tocco di movimento tipico del gusto più tardo. E’ scandita da sei colonne terminanti con capitelli figurati. Lo spazio intercolumnio è chiuso da una sequenza di archetti di chiara derivazione romanica. Le sei colonne riportano in facciata, secondo un consolidato schema, la ripartizione spaziale interna. La scelta del numero non appare, tuttavia casuale: la parte inferiore, con la sua assenza di decori raffigura la vita terrena, gravata dal peso delle incombenze quotidiane e incapace di brillare della luce paradisiaca. Anche il numero delle colonne – il sei – richiama tale concetto: è sempre stato indicato nei testi sacri come “numero dell’uomo”. Il sesto giorno, difatti, Dio crea l’uomo e lo consacra signore e custode del creato. Sempre il sesto giorno, il Cristo viene mostrato da Pilato alla folla di Gerusalemme – immagine di tutte le genti – come “l’uomo” per antonomasia, carico delle pene e delle sofferenze del suo peccato. Il sesto giorno quell’uomo vecchio verrà crocifisso per far posto, il primo giorno della settimana, all’uomo nuovo: il Cristo Risorto.

Diviene preponderante, quindi, il richiamo di natura cristologica che sottolinea la veridicità dell’umanità di Cristo, rendendola così vicina a quel popolo che, anche nelle sue brutture e nei meandri della sua miseria, proprio col Concilio di Trento entra a far parte della storia della Salvezza. Basti guardare, a tal proposito, l’azione della pittura: vecchi pescatori, mendicanti, addirittura meretrici, diventano soggetti di un’arte che li trasforma in santi, cristi e madonne e trasforma le loro osterie e taverne nei luoghi della presenza del divino. Le colonne conducono all’elaborata cornice marcapiano, al cui centro appare uno stuolo angelico recante il cartiglio con la dedicazione della chiesa “A Dio e al Vessillo della Croce”. Ai lati della gloria angelica trovano posto alcune immagini riprese dalla tradizione classica a significazione del Cristo morto e risorto, tra cui una sirena bicaudata, la coppia di leoni, le cornucopie, la fonte zampillante. La sirena bicaudata, presente anche in altre aree della chiesa, è riconosciuta come immagine della doppia natura del Cristo. Così come le sirene della classicità ammaliavano col dolce canto, così la voce di Cristo rallegra col “buon annuncio”.

E’ questo il motivo, per esempio, che la sirena bicaudata diviene simbolo di predicazione scaturita dalla contemplazione della natura di Cristo, e la si ritrova in maniera predominante nelle chiese e nei conventi domenicani e in quelli benedettini. La coppia di leoni richiama l’essenza stessa della divinità. Le tre ipostasi della deità celeste concorrono nell’uguaglianza della natura, pur nella diversità delle persone. Tale natura divina assume in sé l’aspetto maschile (Deus Sabaoth) e l’aspetto femminile (Dives in Misericordia) raffigurato proprio dalla coppia naturale. Anche la Genesi, nel racconto della creazione umana, sottolinea come la coppia di uomini “maschio e femmina” sia l’immagine di Dio. E’ da questa complementarietà di essenza che scaturisce la Charis, ovvero quell’amore d’interscambio capace di generare vita.

In quanto partecipe della natura divina, anche il Cristo assume in se la doppia caratteristica oltre che la doppia natura. La scelta del leone è,invece, espresso richiamo al Messia risorto: egli è il Leone della tribù di Giuda, simbolo di vittoria e regalità, compimento della promessa divina dell’esaltazione eterna della Casa di Davide, a cui Gesù appartiene. Ancora una volta, scegliendo un simbolo regale come il leone, si sottolinea l’aspetto di gloria e di vittoria della Croce cantato dal Vexilla Regis. Le cornucopie, riprodotte anche all’interno della basilica accanto all’altare del Sacro Legno, richiamano la ritrovata pax messianica, capace di ristabilire l’alleanza tra Dio e l’Umanità, e annullare la maledizione originaria. Così come, infatti, a causa di un albero la morte è entrata nell’umanità e ogni uomo è stato condannato a lavorare col sudore della fronte una terra che darà solo spine e cardi, allo stesso modo a causa dell’albero della Croce ogni peccato è cancellato, e la grazia può abbondare copiosa. Proprio l’inno di Venanzio recita: “arbor decora et fulgida, tulitque praedam tartari”. La fonte zampillante retta da una coppia di figure umane al termine della cornice richiama ancora una volta l’inno di Venanzio che si conclude con una dossologia: “Te fons salutis Trinitas collaudet omnis spiritus: quibus Crucis victoria largiris, adde praemium”. La cornice, quindi, ponendo tali termini, si struttura come elevazione della vita terrena che si raffigura nella sequenza di statue a figure umane e animali che trovano posto sotto la balaustra centrale.

Sei figure umane, richiamano ancora una volta numerologicamente l’intera umanità. Ognuna di esse è raffigurata con vestimenti, dignità e provenienza diversa. Ognuna di esse poggia su una base a sua volta allocata sulle colonne dell’ordine inferiore: l’uomo è metro e misura della realtà temporale. Ancora la Genesi racconta della facoltà dell’uomo, concessagli da Dio, di dare il nome alle cose. Dare il nome voleva dire, per la cultura dell’epoca, proclamarsi signore e custode. Così l’uomo diventa centro del creato, punto di riferimento per tutto ciò che esiste. Le sei statue umane di alternano con sette immagini simbolo delle diverse culture e delle diverse strutture sociali: la lupa capitolina, il leone regale, il drago pontificio… tutta l’umanità, quindi, senza distinzione di provenienza, cultura, ceto, dignità, viene accolta nella Chiesa e, tramite essa – ed in maniera esclusiva – ammessa alla contemplazione di Dio. E’ il concetto stesso di “cattolicità” che raduna nella sua universalità coloro che provengono “dai confini della terra”. Al centro della balaustra trova posto l’immagine della Vergine in trono col Bambino Salvator Mundi.

La Chiesa alla quale appartiene anche Maria , e della quale è madre e regina, eleva l’umanità alla visione beatifica. I puttini recanti versetti del Vexilla Regis e i simboli del potere temporale e spirituale, aggiunti in epoca molto più tarda, sono l’esaltazione della potestà divina su cui è costituita la Chiesa Cattolica. Nella perfetta assonanza con la teologia medievale, di natura aristotelico tomista, ritenuta dal Concilio di Trento la sola dottrina fondate la Chiesa Cattolica, e riecheggiata dall’Alighieri nella descrizione della visione del Paradiso, la Vergine Madre, prima tra i redenti e figlia di suo Figlio, apre la contemplazione di Dio.

Dio è raffigurato nel grande ordine superiore; nella fiammeggiante struttura del quadro si iscrive il cerchio: la perfetta essenza divina (il cerchio) si coniuga con la stabilità e immutabilità (il quadrato). Il tutto è chiuso da quattro colonne terminanti con capitelli cristologici. Il quattro è in tutta la sacra scrittura simbolo divino: quattro sono le lettere del Tetragramma Divino, quattro sono i lati della Gerusalemme Celeste, quattro gli esseri viventi davanti al trono dell’Agnello apocalittico, quattro i fiumi d’acqua viva sgorganti dal trono del Messia risorto.
Il rosone, simbolo già nell’età romanica di Dio, è caratterizzato da una sequenza di dodici Cherubini. Nella gerarchia angelica sono proprio loro a guardia del trono di Dio e custodi del Paradiso. Al primo cerchio cherubico si aggiunge una seconda sequenza di ventiquattro melograni, simbolo della fecondità dell’àgape divina, e infine una terza sequenza di ancora ventiquattro altri Serafini: sono essi gli esseri angelici che ardono dell’amore per Dio creatore, proclamando incessantemente il Trisaghion “Santo, Santo Santo il Signore Dio degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”.
La somma delle figure del rosone , che ha base 12, numero di fondamento della matematica antica, è uguale a 60, simbolo della totalità e della completezza: Dio è fondamento e somma di tutta la creazione.

Ai lati della visione della deità, pur presenti nello spazio paradisiaco ma divisi da colonne, a sottolineare l’impenetrabilità della natura divina, trovano posto le immagini dei santi Benedetto da Norcia e Celestino V°. A chiudere la struttura la raffigurazione della Sapienza, regale e accompagnata dall’aquila giovannea da un lato , e la raffigurazione della Carità dall’altra, recante un agnello in grembo e posando il piede sul leone dormiente. Tale raffigurazione entra ancora una volta nella visione del Cristo Logos e Ostia, secondo quanto riportato anche da Santa Caterina da Siena la quale scrive: “la carità è fatto agnello uno leone, e stando sulla cattedra della croce à fatto si fatto grido sopra el figliuolo morto de l’umana generazione che gli à tolta la morte e data la vita”.

La visione divina, apocalittica, gloriosa è resa possibile attraverso la contemplazione e il supporto dell’intelletto. Solo l’uomo è dotato di intelletto, ed è per tal motivo che le colonne superiori vengono sorrette solo dagli esseri umani. Solo l’uomo è “capace” di Dio. Le colonne terminano anch’esse con motivi cristologici abbastanza noti: il pellicano, che col becco strappa la sua carne dal petto per nutrire i suoi piccoli è da sempre considerato simbolo eucaristico; il grifone, ancora una volta simbolo della duplice natura del Cristo; l’aquila, simbolo della sapienza e del Logos.

La cornice superiore, opera di Giuseppe Zimbalo, contiene il nome dell’abate reggente la chiesa alla data della sua realizzazione: Dom Nicola da Napoli. Tale iscrizione, di carattere prettamente celebrativa, è retta da uno stuolo di angeli operai, intenti a completare la fabbrica della chiesa. Il fastigio superiore raffigura il trionfo della Croce. Essa non è più strumento di morte ma di vita. Quel Dio creatore appare in forma umana e si umilia per amore delle sue creature fino alla morte, trionfando sulla morte e donando vita. La giustizia del Padre è soddisfatta attraverso il sacrificio del Figlio, bruciato sull’altare dal fuoco inestinguibile dello Spirito. La Croce appare quindi, trionfante e splendente nella parte terminale, quasi intronizzata su un grande altare. Gigli fuoriescono dai suoi bracci, volute floreali e preziosi ricami ne esaltano la gloria. La Croce risplende nel cielo come segno massimo dell’essenza divina, come testimone dell’Amore e come simbolo della vittoria finale sulla morte. Nello scenario solenne della facciata, l’apparizione della Croce costituisce l’inizio della Parusìa, ovvero del ritorno glorioso del Cristo.

Nel Vangelo di Matteo si legge “Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’Uomo, e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terrà, e vedranno il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli”. Proprio sotto il grande fastigio, due angeli con trombe suonano verso i quattro punti cardinali.

La gloria finale della Croce richiama ancora una volta l’inno del Vexilla Regis: “I vessilli del Re avanzano, la croce splende gloriosa, su cui il creatore del mondo morì, donando a noi la vita. (…) Dal legno regnò il Signore, o luminoso albero, tinto di porpora regale, sostegno scelto e nobile per così sante membra.” Una facciata, quindi, che canta alla grandezza di Dio, esalta la vittoria del Vero Legno che essa custodisce, ammaestra e catechizza il popolo che, ritrovata la via del Cielo, è ammesso alla visione del Paradiso.

Elvino Politi